martedì 6 aprile 2010

L'ESSENZA DELL'ARTE GERMANICA



Alfred Rosenberg. Il Mito Del XX° Secolo
Libro Secondo


L'opera d'arte è la rappresentazione
vivente della religione.
Richard Wagner.


1. L'Ideale razziale della bellezza.

Il regno dei virtuosi giunge alla fine. Noi non vogliamo più lasciarci tentare ed illudere; ne abbiamo più che abbastanza delle penose creazioni degli ultimi decenni. Noi detestiamo questo disordine tecnico inaudito: di tutto ciò che, ancora oggi, pretende d’essere dell'Arte. Noi abbiamo il sentore che il tempo dell'intellettualismo, come fenomeno di pretesa culturale, è ormai moribondo, e che gli uccelli del malaugurio, che vedendo in esso l'avvenire presagiscono la fine della cultura europea, sono i profeti di un passato ormai finito.

Questi uomini demoralizzati, hanno già perso la fede prima di pensare o scrivere. Questo è il motivo per cui la loro filosofia e le loro considerazioni storiche devono perdersi nell'incredulità. Il nostro crepuscolo e la nostra rinascenza divorano avidamente la loro opera; i deboli sono spezzati, i forti sentono accrescersi la loro fede e la loro resistenza. Si può considerare che il ritiro del materialismo teorico, nella scienza e nell'arte, è interiormente compiuto. Il pendolo orienta già il suo slancio nell'altra direzione (teosofia,occultismo ecc.). La nostra essenza, contrasto delle due correnti, inizia gradualmente a riapparire.

Il tempo dell'estetica a colpi di tesi voluminose è finito anch'esso. Il lavoro d'analisi, preponderante in tutti i settori, ha suscitato un'importante serie di opere, andando fino al più sottile e trattando dell'arte e del sentimento estetico. Unformidabile lavoro intellettuale si accumula, ma nessuno oggi legge Zimmermann, Hartmann, e assai poco Fechner,Kulpe, Groos, Lipps, Muller-Freinfels, Moos e tanti altri. Chi saprebbe adattare le concezioni di Winchelmann e di Lessing al pensiero contemporaneo? Schiller, Kant e Schopenhauer non sono praticamente onorati che a causa del loro nome.

Ora non è perchè le idee più profonde non si trovano affatto nelle loro opere, ma perchè non è possibile utilizzarle globalmente nel dominio della riflessione artistica. Quasi tutti fissano esclusivamente la Grecia e parlano ancora della probabilità di un'estetica immutabile e generale. E, quando notano delle differenze fra i popoli in materia artistica, il loro spirito teorico (che noi designiamo come la filosofia del XVIII° secolo) contraddice allora le loro proprie opere, o snatura le creazioni del loro popolo. L'antinomia fra la teoria e l'atto esiste in Goethe come in Schiller e in Schopenhauer. L'estetismo del XIX° secolo si è profondamente sbagliato, non facendo altro che analizzare le parole degli artisti, senza aderire alle loro opere. Esso non ha notato che l'ammirazione di Goethe per il valore formale del Laooconte, è una cosa; l'attività di Faust essenzialmente un'altra. L'istinto germanico di Goethe era troppo possente e la sua opera, determinante per noi, si è opposta a quasi ogni carattere greco.

Il punto di partenza dell'analisi estetica, era in fondato. E' per questo che essa non ha potuto far nascere nessun effetto profondo, nè ha aiutato a ottenere una più chiara coscienza della nostra essenza; essa non ha reagito in maniera riflessiva, ma, al contrario, ha affrontato l'Arte dell'Europa con dei criteri che si son persi sia in generalizzazioni sfocate, sia puramente greche o addirittura neo-greche. Già,si è parlato a torto e a traverso della filosofia o della storia dell'Oriente,poi si è scoperto che questo Oriente, che si vedeva come monolitico, era composto di popoli dalle culture completamente differenti le une dalle altre.

Al giorno d'oggi è diventato di moda parlare dell'occidente. E' sicuro che questo è assai più facilmente giustificabile che non per l'Oriente: ma si resta ancora troppo nell'astratto, se l'accento non viene posto sull'elemento nordico, costruttore dell'Occidente. Quasi tutti i filosofi che hanno parlato dell'immutabilità dell'estetica, o della fissazione dei valori in arte, hanno, di fatto, occultato o tralasciato un ideale razziale della bellezza, un rapporto fisico e un valore supremo razziale nell'anima.

A questo proposito, è evidente,se si deve parlare dell'essenza dell'arte e dei suoi effetti, che la pura rappresentazione fisica di un Greco, per esempio, agirà su di noi in maniera diversa che non l'immagine di un imperatore cinese. Ogni tratto riceve in Cina una funzione diversa che in Ellade, che, senza la conoscenza del condizionamento razziale della volontà che elabora le forme,non può né venire spiegata, né essere apprezzata esteticamente. Ogni opera d'Arte racchiude, inoltre, un contenuto spirituale. Esso pure non è comprensibile che se è accompagnato dal suo rapporto formale, il fondo delle diverse anime razziali.

La nostra estetica non è quindi, fin qui, stata trattata, malgrado molti elementi esatti, che globalmente e svuotata della sua essenza. A questo proposito, l'artista Naif o spontaneo, come il vero creatore cosciente, hanno sempre rappresentato la razza e personificato esteriormente delle qualità psichiche, attraverso l'utilizzazione dei tipi razziali che li circondano, e che diventano le caratteristiche dominanti d’ una certa specie. Malgrado la parentela certa, che ci lega all'Ellade, il centro interiore della vita dei Greci era ritmato differentemente da quello dell'Indù, del Romano o del Germanico. Il valore era l'estetica.



La bellezza era la norma della vita ellenica, che si stabiliva, nella cornice dell'argomento in questione, dinnanzi ad un vino leggero e discutendo di un soggetto nel suo insieme. Essa era il tema motore di tutta l'Ellade, e lo rimase anche quando la povera Ellade disgregata fece fronte ad uno stratega romano, il cui valore ricordava quello degli avi: Quinctus Haminus. Lo si ricevette come un eroe nazionale a causa della sua dignità e della sua bellezza. Atene lo celebrò come uno dei suoi.

Anche nella sconfitta, la bellezza era la più profonda aspirazione greca, e se noi vogliamo comprendere l'Ellade dobbiamo mettere da parte il nostro valore supremo: il carattere. In Grecia, un uomo veramente bello poteva essere onorato, dopo la sua morte, come un semi-dio. Così anche gli Egestani, che erano greci solo a metà, elevarono un santuario all'uomo considerato come il più bel greco del combattimento contro i Cartaginesi, e fecero sacrifici in suo onore.

Poteva accadere che gli Elleni risparmiassero un avversario di cui la bellezza era impressionante, il che appariva loro essere una parte della divinità. Plutarco ci ha lasciato su ciò un racconto commovente. I Greci giunsero persino a portare in trionfo il guerriero persiano Masistios, che stavano per uccidere, semplicemente per rendere omaggio alla sua bellezza; e dichiararono di Serse, che la sua superba bellezza giustificava :appieno il fatto che egli regnasse sul suo popolo". Questa apparenza era sicuramente, con qualche eccezione, considerata come l'espressione di un'anima nobile. L'eroe era dunque sempre bello, il che significa che apparteneva ad una specie razziale determinata.

L'eroe greco è quasi sempre rappresentato con gli stessi tratti, non solo nella statuaria greca, ma anche nell'arte minore della pittura su vaso. Il suo corpo slanciato offre lo stesso tipo di bellezza ideale, e, tuttavia, il suo profilo è disegnato con più morbidezza di quello del Germanico ulteriore.

Parallelamente alla grande arte ellenica, si trovano le pitture vascolari di Exequias, Klityas, Nicosthene, che, per esempio, mostrano Aiace e Achille nel pentatloi, Castore che tiene il morso del cavallo, le Hydre di Caere con le Amazzoni, la donna bionda di Euphronio sulla coppa d'Orfeo, che evoca nettamente il tipo della Gretchen, la magnifica Afrodite dell'oca , il cratere napoletano di Aristofane ed Ergino
ecc. Si trae dello studio di migliaia di vasi e coppe, un tipo permanente, che evolve scarsamente, e che è evidentemente il solo a far nascere nei Greci l'emozione dell'eroico, del bello, del grande. Per altro, si è creato un contrasto razziale mostrando, per esempio, i Sileni, i Satiri ed i Centauri.

Così la coppa di Phineus, delle isole ioniche, personifica tre forme della lascivia maschile con tutti i suoi attributi. Le teste di questo trio sono rotonde e pesanti, la fronte gonfia, idrocefala, il naso corto e bulboso, le labbra rialzate e sporgenti. Allo stesso modo, Andokidès dipinge egli pure il Sileno, ma aggiunge barba e capelli. Di profilo, si nota la sua nuca spessa e carnosa.

Lo stesso tipo, rappresentato brillantemente, si ritrova in Cléophrades, di cui la baccanate, davvero greca per la sua figura e la forma del suo cranio, rivela un'opposizione psicorazziale del tutto voluta. Nicosthéne rappresenta il Sileno ubriaco, con un otre pieno di vino, caricatura perfettamente bestiale e stupida; mentre Euphronios ha lasciato, in testimonianza, una coppa su cui un Sileno mostra il perfetto esempio del tipo razziale orientale-negroide, peloso, capelluto, abbruttito.

Accanto a questi due contrasti, lo svelto, vigoroso e aristocratico Elleno e il Sileno bestiale, ottuso, tarchiato, che appartiene senza alcun dubbio al tipo dello schiavo di razza straniera, sottomesso dai Greci. L'infiltrazione crescente del sangue asiatico, fa apparire in seguito, nella pittura, delle figure che, anche di lontano, non possono dissimulare le loro caratteristiche semite, in generale, ed abraiche in particolare.
Una coppa del Maestro d'Eos, per esempio, riproduce un mercante semita con un sacco sul dorso, mentre sul cratere di Phineus, è disegnata un'Arpia la cui testa e il movimento della mano sono ancora visibili al giorno d'oggi, in grandezza naturale sulla Kurfürstendamm.

Migliaia di vasi e immagini dell'Asia Minore, fino agli affreschi di Pompei, otto secoli dopo, attestano il fatto che la volontà artistica ed estetica faceva concepire e rappresentare un eroe o un essere divorato dalla possessione demoniaca in funzione di criteri razziali. L'imbastardimento progressivo dei Greci, fece apparire allora degli umani difformi, con delle membra flosce e delle teste informi. Il caos razziale di un'epoca di democrazia galoppante, va mano nella mano con una decadenza artistica.

Non vi è più un'anima che voglia esprimersi, non vi è più un Tipo che incarni l'anima. Solo l'"uomo" dell'ellenismo sopravvive, ma è una creatura che non agisce più esteticamente, e non ne sarebbe nemmeno più capace, perchè l'anima razziale, creatrice dello stile dell'Elleno, è morta per sempre.



Era già così per il biondo Acheo di Pindaro, caso unico nel Mediterraneo, o ancora all'inizio del V° secolo, con la fisionomia dei veri Elleni, che Adamantios così determina:

"Essi sono davvero grandi,solidi, bianchi di pelle, con mani e piedi ben fatti, il collo vigoroso, il capello castano, dolce e leggermente ondulato, il viso squadrato, le labbra fini, il naso diritto. Gli occhi hanno uno sguardo brillante, intenso. Essi sono il popolo della terra che ha i più begli occhi."

Omero e la sua opera, sono altrettanto determinate dal carattere nordico, quanto l'arte creatrice della Grecia. Quando Telemaco si separa da sua madre, Athena, la "figlia occhi-cerula di Zeus", gli invia un vento favorevole per gonfiare le sue vele. Quando Menelao riceve la predizione del suo destino, gli si profetizza una vita divina che lo condurrà " all'estremo della terra, ai campi elisi dove abita Rhadamante, l'Eroe biondo". Anche Hölderling non poteva immaginare il genio della Grecia che con dei riccioli d'oro alle tempie. E Omero sovranamente afferma: Perchè sempre l'uomo risoluto conduce tutto al meglio del suo fine Anche se, straniero, egli viene di lontano.

All'opposto, Thersite incarna il nemico dell'eroe biondo, un oscuro traditore infido, deforme, personificazione manifesta di uno spione vicino-orientali nell'armata greca. In qualche modo,il predecessore dei nostri pacifisti di Berlino e Francoforte. Omero dipinge i fratelli di Thersite, i Fenici, come dei "Ladri che portano innumerevoli frivolezze su sinistri navigli".

Pure Omero ha concepito un'arte legata all'anima di una razza, che ha generato le statue che più tardi si eleveranno in onore di Athena; ha diretto il fine pennello dei pittori, ma anche dato al sua forma razziale al principio straniero antieroico. La figura tarchiata del Sileno non è dunque, affatto, una caricatura, come i nostri storici d'arte pretenderebbero di farci credere, ma la rappresentazione plastica delle particolarità di un'anima razziale estranea, così come essa apparve ai Greci.

Il culto fallico ulteriore, i baccanali lubrichi, e tutta la decomposizione post-dionisiaca,risalgono all'invasione razziale del tipo orientale-asiatico, prima asservito e ritenuto stupido e limitato. Questo tracollo sociale raggiunge il suo punto maggiore con il pesante spirito di Socrate. Non vi è alcun dubbio che Platone abbia smisuratamente glorificato questo spaccatore di capelli in quattro. Una professione di
fede di Socrate, in un dialogo di Platone, è in ogni caso esatta. Egli dichiara che un pezzo di carta redatta, potrebbe strapparlo alla più bella natura. In piena Grecia, ammiratrice di quest'ultima, questo era una dichiarazione della più bassa pedanteria.

L'esempio di Socrate prova che la forza psico-razziale del genio, non implica necessariamente una filosofia o un'estetica umana equivalente. Il sacro e il bello modellavano da sempre la vita greca, e tuttavia il combattimento appariva, anche ai Greci, come una legge naturale eterna, che Pallade Atena stessa serviva. Socrate non è il segno di una nuova epoca della storia greca, ma è, al contrario, l'immissione di un tutt'altro tipo d'uomo nella vita greca. Sicuramente, egli fu formato dalle tradizioni
sacre di Atene, da Omero, i tragici,Pericle e l'architettura dell'Acropoli.

Naturalmente si impegnò in degli agoni politici, e tuttavia Socrate è un uomo senza genio, anche se è coraggioso e nobile, tratto da una razza non greca. Egli è vissuto in un'epoca in cui la luce di Atene vacillava e in cui la democrazia, prima aristocratica, (esclusivamente greca, senza un solo straniero) toccava il fondo dell'abisso. Sotto questa tirannia di demagoghi, il grande Alcibiade fu bandito, tutta l'armata di Atene finì miseramente davanti a Siracusa, quasi tutte le altre conquiste vennero perdute. Gli aristocratici vincitori, avevan fatto bere a centinaia di democratici la coppa avvelenata, prima di conoscere, essi stessi, un simile destino. Aristofane sbeffeggia la vecchia tradizione; i nuovi maestri, Gorgia, Protagora, etc. si ammantarono di estetismo. Allora lo straniero, simboleggiato mille volte sotto i tratti del Sileno, fece la sua comparsa.

Al suo zenith, l'altra razza aveva scelto di restare spiritualmente modellata dalla cultura dell'Ellade: sobria, ironica, robusta, cosciente d'essere di fronte ad una forma disaggregata, intrepida, coraggiosa. Forte in logica e fornita di una fine dialettica, il laido Socrate conduce alla disperazione i bei maestri Greci, che avevan perduta ogni
consistenza interiore. Durante questo tempo, egli cerca il "bene in sè", predica la "comunità dei beni" e riunisce attorno a sè una nuova specie combattente greca.

Prima un Pericle, padrone di Atene, fu costretto ad implorare grazia dal tribunale, per ottenere la cittadinanza del suo ultimo figlio, nato da una donna straniera; il che gli fu accordato a titolo eccezionale. Questa legge razziale rigorosa, che egli stesso aveva istituito, cade in disuso con l'emorragia progressiva di Atene. E, in un tempo di decomposizione, Socrate, questo non greco, gli dà il colpo di grazia. L'idea di una "comunità dei buoni", provoca una nuova ripartizione degli uomini: non per via della razza e del popolo, ma per via dell'individuo.



Dopo la disfatta della democrazia razziale ateniese, Socrate fu il social democratico internazionalista di quest'epoca. Il suo coraggio e la sua saggezza permisero la consacrazione ricercata della dottrina anti-razziale. Il suo discepolo Antisthene, figlio di una schiava vicino-orientale, ne trasse in seguito le conseguenze, e predicò che il rovesciamento di tutte le barriere fra tutte le razze e tutti i popoli era un progresso dell'umanità. Socrate non deve che a Platone la sua sopravvivenza, in forma di venerato eroe, in tutte le nostre grandi università.

Attraverso Platone, il genio greco ripaga l'uomo che, nel mezzo di un'epoca di deliquiescenza, rappresentava la sana riflessione; esso ama quest'uomo e gli eleva un tale monumento eterno, da mettere anche nella bocca di Socrate le parole della sua propria anima. Cos' il vero Socrate si cancella agli occhi della terra. Solo alcuni passaggi in Platone danno delle indicazioni su di lui.
Per esempio, nel Fedone, Platone fa dire a Socrate che egli non ha alcuna attitudine per lo studio dei fenomeni organici; non si troverebbe mai finalmente la vera essenza delle cose attraverso l'osservazione, ma da ciò che noi pensiamo di esse.

E' dunque vano consumarsi gli occhi nell'osservazione. Non spetta all'uomo di cercare se la terra sia piatta o tonda, ma semplicemente di chiedere alla ragione cosa sia più coerente. E' veramente saggio pensare che si è nel mezzo o no? Platone non ha certamente inventato questo passaggio. Esso è conforme a Socrate, pronto a rigettare la più bella natura per correre dietro ad una pergamena, come a colui il cui
sguardo si distoglie da una Grecia razzialmente bella, e che predica una umanità astratta,una fraternità dei buoni. E' la volontà di tirarsi via dal sole per cercare l'ombra di una dottrina autoritaria, razionale.

Come il dogma religioso ebraico, il sistema scientifico socratico contro natura, si espande sull'Europa. Aristotele lo schematizza diffondendolo, ed Hegel è stato il suo ultimo grande allievo. "La logica è la scienza di Dio" dirà costui. Questa frase è uno schiaffo al volto di ogni vera religione nordica, di ogni scienza veramente germanica, ma anche veramente greca. Ora la frase è autenticamente socratica, ed è per questo, e non per nulla, che Hegel è sacro quanto Socrate, per i professori delle università.

Se anche l'immagine dell'anima e l'apparenza esteriore non sempre coincidono, in Socrate non è questo il caso. In un ambiente in cui regnano Eros e la bellezza razziale nordica della bionda Afrodite, del biondo Giasone, i cui capelli non furono mai toccati dalla forbice,del biondo, snello e bianco di pelle Dionys di Euripide, fino alle belle teste bionde degli "uccelli" di Aristofane, si espande la stessa vera Grecia portatrice e creatrice dell'ideale di bellezza. Poi è apparso il satiro irsuto, simbolo dello straniero.

E pure lì, come dappertutto, distogliendo il suo sguardo dalla terra, si è significato il crollo. Il bello è scomparso; delle figure bastarde sono apparse anche nell'arte; il repellente, l'orrendamente laido, e i contro natura, diventano "bello". L'insegnamento del ragionevole e del bene, è stato il corollario della decomposizione razziale e psichica greca.

Il "buono" ha distrutto allora l'ideale razziale della bellezza nell'arte, come nel pensiero eroico che reggeva la vita sociale e nazionale. Socrate è stato il più grande
simbolo, e personalmente il più nobile, del caos invasivo, nemico della razza e dell'anima della Grecia.

Osservato dal punto di vista dello sviluppo storico, Platone ha prodigato interamente il suo genio all'uomo fermo e logico, e l'ha reso immortale; ma Platone era essenzialmente aristocratico, un campione olimpico, un poeta ebbro di bellezza, un creatore plastico, un pensatore esuberante e colui che, finalmente,voleva salvare il suo popolo con una costituzione di Stato fortemente autoritario, dittatoriale fino
nei dettagli; stabilito su delle basi razziali. Qui non vi era alcun socratismo, ma l'ultimo espandersi dell'Ellenismo spirituale.

Ciò che ha creato Prassitele, è stata la protesta contro ogni spirito socratico, l'ultimo inno alla bellezza razziale nordico greca, come la magnifica Vittoria di Samotracia. Ma Socrate è stato pur tuttavia un simbolo. L'Ellade si oscura nel caos razziale e, al posto del fiero Ateniese, i "Graeculi" ovunque disprezzati popolano le province della Roma ascendente. Si tratta di uomini senza carattere, dai quali ci si farà "istruire", che si pagano e cacciano quando se ne è avuto abbastanza. Socrate e Anthisthene vinsero, l'Ellade perì. Il buon senso popolare aveva distrutto il genio fin dai primi segni di
indebolimento. Il laido diventa la norma, quando il bello gli accorda la concessione del "buono".

Quando Socrate si trovò dinnanzi ai giudici, disse: "Giammai Atene è stata meglio servita che da me" "L'umiltà" e la "modestia" dell'"inviato divino", come egli ancora qualificava se stesso, avevano in ogni caso il loro rovescio. Socrate aveva sentito inconsciamente che la Grecia si era spezzata....

Traduzione di Mauro Likar

Nessun commento:

Posta un commento