lunedì 5 aprile 2010

AVATARA



AVATARA

Tra tutte gli archetipi e le immagini che popolano lo spazio religioso Ariano dell’India, l’Avatâra è quella che ha trovato una certa risonanza anche in Occidente. L’Avatâra è l’incarnazione dell’aspetto Conservatore e biofilo del divino: Vishnu, e rappresenta il Dio “disceso” nel mondo, per salvarlo dal male di una distruzione incombente.

L’Avatâra per eccellenza, è Krsna, che ad Arjuna, sul campo di battaglia del Dharma, in cui si decidono i destini dei regni terrestri, afferma:

Ogni qualvolta il Dharma langue e regna l’Adharma, o Bhârata, Io proietto me stesso; per proteggere i buoni e sterminare i malvagi, per ristabilire l’Armonia di vita di età in età Io vengo all’essere.

Yadâ yadâ: “Ogni qual volta”, indica chiaramente la circolarità ciclica di una serie virtualmente infinita d’autoemanazionipolimorfe del Dio Vishnu, che non è Jahvé: il Dio unico, definitivo, mortifero ed Esclusivo degli Ebrei, dei Cristiani, o degli Islamici, ma un aspetto del Divino in sé, che si manifesta in triplice forma: come Creatore: Brahma, come Conservatore: Vishnu, e e come Distruttore trasmutante: Shiva.

I Purâna indù parlano delle “Migliaia di manifestazioni già avvenute, e di quelle miriadi che ancora verranno e che è impossibile contare”. Nulla potrebbe essere più lontano dal concetto ariano d’Avatâra, che l’Idea ebraica e Paolino cristiana del Cristo-Messia, inteso come evento unico e definitivo, calato in una storia caratterizzata dal Tempo cronologico e lineare.

Lo spazio-tempo, in cui avviene la proiezione indefinita degli avatâra divini, non è quello rinserrato nella camicia di forza del concetto lineare ebraico: una Cronaca “storica” che va ineluttabilmente dal passato al presente, e poi al futuro; ma l’Abisso della Totalità, in cui, nel muoversi processionale del Ciclo Cosmico delle Ere, o Yuga, accade l’evento avatârico della Presenza divina, che s’incarna nella Pienezza dell’eterno Presente: il Qui ed Ora, per operavi la trasmutazione dell’Adharma ormai imperante, nel Dharma d’un nuovo Eone.

L’avatâra discende nella traccia di questo cammino degli Yuga, immergendosi carnalmente e visceralmente nelle Crisi che scandiscono la spirale involutiva delle Ere, per riportare instancabilmente all’Armonia cosmica originaria ciò che dell’universo si sfalda nell’entropia e nel disordine caotico.

Il campo ed i modi d’azione dell’Avatâra ariano, non sono neutrali od a-temporali, ma sono “qualitativi ed eterni”, e si sviluppano in ogni “Tempo Malvagio”; contro di esso ed i suoi agenti degeneranti, che affliggono il Dharma. Il Dharma è il fondamento implicito dell’Armonia cosmica vitale ed esistenziale, in perenne equilibrio instabile, e l’Avatâra interviene ogniqualvolta esista la minaccia d’una sua rovinosa caduta. Dice il Dio Brahmâ:

Nell’età Krya, la Vacca del Dharma ha quattro zampe, e Visnu è di carnagione bianca. Non vi sono carestie né malattie, né morte prematura, la terra produce messi senza
aratura e le vacche danno copioso latte. Non vi è passione né ira, paura, avidità, egoismo od invidia.

Nella successiva età Tretâ la Vacca del Dharma rimane con tre zampe, e Visnu si fa vermiglio. Gli uomini sono longevi, compiono sacrifici per ottenere ciò che desiderano, e non agiscono sotto l’impulso delle passioni, ma esercitano il controllo, i riti, la purezza, le abluzioni, le offerte, le preghiere e le oblazioni.

Viene poi l’età Dvâpara, quando la Vacca del Dharma poggia ormai su due sole zampe, e Visnu assume un color fulvo. Le preghiere, i sacrifici, e le pratiche ascetiche sono motivati dalla brama dei frutti, e il mondo è diviso tra bene e male. I re si disputano il dominio della terra, e conquistano il cielo purificandosi con i riti sacrificali.

Quarta viene la funesta Età Kali; la Vacca del Dharma vacilla
su un’unica zampa, e Visnu ha un colore Nero. La malvagità ha il sopravvento, con l’illusione, l’egoismo, la passione, l’ira e la paura. I re bramano le ricchezze, e sono accecati dalla cupidigia. Gli uomini hanno vita breve, la terra è avara di messi, le vacche di latte, le caste rigenerate non hanno virtú, gli uomini sono fraudolenti e dediti ai piaceri del palato e dei sensi, lascivi, bugiardi e scellerati. A sedici anni incanutiscono, mentre le donne s’ingravidano a dodici anni. A poco a poco le caste si contaminano, gli stadi della vita si confondono, e tutto si uniforma; i riti e gli ordinamenti perenni delle stirpi periscono, ed i luoghi sacri, profanati dai barbari, perdono la loro Potenza.

In questo decorso fatale, fino alla catarsi che al culmine del Kali Yuga o Età Oscura, inaugura una nuova predestinata Età dell’Oro, l’Avatâra non interferisce, ma lo asseconda. Il suo scopo è di “ristabilire l’equilibrio e la stabilità del dharma”. L’avatâra protegge i buoni e stermina i malvagi, in un gioco di guerra in cui luce e ombra, male e bene sono relativi e complementari, come due facce di un’unica medaglia: la realtà suprema è difatti al di là dei cicli Eonici.




Gli Avatâra, restaurando il dharma, garantiscono la continuità dell’oscillazione esistenziale ed il continuo gioco altalenante delle forze divine e karmiche: superiori ed infere. La storia non ha alcun possibile epilogo, perché è in sé stessa soltanto un episodio di un processo senza fine. Il daivâsura o la contesa cosmica gioisce di sé stessa, nella creazione intesa come Lîlâ, o gioco Divino.

Molte sono le vie che conducono all’altra sponda, ma tutti iniziano su questa, e solo di qui si può transitare oltre. Per coloro che ancora desiderano i frutti dell’azione: ricchezza, bellezza, piacere, questo è il luogo dove poterli seminare, con le opere. Per coloro che ormai aspirano alla liberazione, solo questo è il teatro dove la Natura danza dinanzi al Sé, finché questi non realizza la sua condizione di spettatore impassibile.

In questo piano di battaglia, che è il campo d’azione dell’Avatâra si compie tutta la parabola dell’essere nel divenire. L’Avatâra non discende per salvare, ma per rifondare la perpetua possibilità della liberazione. Egli non viene solo per l’Uomo, ma per aiutare la Terra e l’intera Natura, uomo compreso, a rimuovere il peso delle proprie disarmonie squilibranti: il malefico fardello dell’Adharma. Per alleviare la Terra o per umiliare la tracotanza dei malvagi il Dio Visnu si foggia di volta in volta il corpo piú adatto allo scopo. La piú evidente fra le peculiarità dell’Avatâra è la sua capacità di trasmutazione della forma. Leggiamo nel Bhâgavata Purâna:

Tra gli dèi e i veggenti, o Signore, tra gli uomini e gli animali terrestri e acquatici tu benché ingenerato prendi nascita, o onnipotente arbitro del destino, per reprimere
l’arroganza dei malvagi e mostrare il tuo favore ai buoni.

L’Avatâra non è mediatore, ma giustiziere; non sacerdote ma
guerriero che eredita, come tale, le maschere di personalità e le astuzie dei guerrieri kshatrya, che sono le stesse del Dio vedico Indra: l’antico campione degli Dei.

Il Cristianesimo giudaico, che ha ereditato dall’Ebraismo la valutazione ossessiva della Storia, come possibile spazio della teofania messianica, e l’ha sigillata una volta per tutte nella pretesa epifania d’una incarnazione Cristica individuale, irreversibile, e storicamente irripetibile, ha voluto con ciò antropomorfizzare definitivamente il divino, estraniandolo completamente dalla Natura.

Questa “umanizzazione” fittizia è sostanzialmente estranea alla realtà dell’Induismo Ariano, che rimane fedele al respiro cosmico degli Yuga, e ad una concezione qualitativa dell’Individuo, che la nascita in una data Casta, o livello esistenziale della Natura, rivela apertamente. Invece di sostituire ai cicli dell’eterno ritorno e delle Ere
cosmiche, le stagioni cronologiche d’una storia lineare, l’Arianesimo Indiano ha posto l’individuo umano sul piano di un Ordine Naturale delle esistenze, che pur conoscendo diverse qualità individuali, non accorda agli individui privilegi che non corrispondano loro.

A dimostrare quest’ equanimità del Cosmo, non solo gli esseri umani, ma anche i vermi e gli insetti che muoiono in riva al Gange, o gli alberi caduti dalle sue sponde, ottengono la meta suprema della liberazione dai Cicli di morte e rinascita.

Nessuna scissura reale separa difatti l’uomo dai suoi confratelli subumani, perché entrambe emergono dal flusso di vita che la legge di trasmigrazione e rinascita mantiene in ciclica rotazione. Perciò l’avatâra non fa sciocche distinzioni, nello scegliere il grembo in cui nascere, lungo la scala evolutiva degli esseri. Il corpo è per lui, come per ognuno, un semplice abito adeguato all’esistenza contingente e alle sue necessità:

Già molte nascite ho attraversato in passato, ed anche tu, o Arjuna: Io le conosco tutte, ma tu non le ricordi, o sterminatore dei nemici.

l’Avatâra discenderà ancora, di Era in Era, nell’illusione carnale delle esistenze, affinché alcuni possano liberarsene.

MAURO LIKAR

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